Cos’è la giustizia?
Una semplice domanda che apre ad un universo di risposte, plurime ed articolate, le quali inevitabilmente sollecitano il concetto di legge, in quanto strumento atto a normare ciò che giusto, impedendo o punendo ciò che non lo è.
La giustizia non si nutre della smania di potere, non si arrocca nei palazzi di corte e le leggi, permeate da questo concetto, non sono o meglio non dovrebbero essere armi, impugnate crudelmente contro i diritti umani, ma faro etico e civile.
Questa accezione etico-filosofica di legge e di giustizia per noi potrebbe apparire ovvia, ma non lo è, si configura come una conquista, la summa di anni di idee e visioni filosofiche elargite da illustri amministratori ed autori, a cui dobbiamo gran parte di quello che oggi definiremmo “Stato di Diritto”.
Tra questi, figura in primissima linea Cesare Beccaria, padre morale del diritto penale contemporaneo, autore del celebre “Dei Delitti e delle Pene”, saggio del 1764 dalla disarmante attualità.
Cesare Beccaria, è stato uno dei pensatori più influenti del 700’ italiano ed europeo.
Intrise del fervore dell’illuminismo, le sue parole piene di libertà hanno disegnato una visione alternativa del diritto, ponendo al centro di una rivoluzionaria riforma filosofico-giuridica la dignità umana e l’utilità sociale.
L’opera che raccoglie ed argomenta questi principi è il saggio “Dei Delitti e delle Pene”, scritto in forma anonima nel 1764 e rivista dall’autore due anni dopo.
Il testo racchiude riflessioni profonde circa l’ingiustizia del sistema giuridico dell’epoca e sulla natura stessa delle leggi.
L’opera venne tradotta e pubblicata con integrazioni originali da Morellet. Questo favorì notevolmente la diffusione dell’opera in Francia, uno degli epicentri della filosofia illuminista.
Sono numerosi gli impianti legislativi dell’epoca che risentirono del pensiero di Cesare Beccaria, tra cui la costituzione americana, lo stesso T. Jefferson prese spunto del “Dei Delitti e delle Pene”.
Un altro elemento che favorì il grande successo dell’opera fu la forma letteraria adottata: un saggio assimilabile ad un pamphlet, ben lontano dai dettami linguistici ed argomentativi del trattato giuridico.
Il lessico adottato si dimostrò più adatto a smuovere gli animi letterari e filosofici e ad esprimere il concetto semplice ma potente dell’uguaglianza.
Beccaria esamina il rapporto epistemologico tra giustizia e legge, cittadino e autorità pubblica adottando una prospettiva utilitaristica e contrattualistica.
Le leggi sono intese come un contratto sociale, attraverso il quale gli uomini indipendenti si uniscono per evitare un continuo stato di guerra. Nella società, per natura collettiva, ogni individuo sacrifica una porzione della propria libertà per poter godere di uno stato di sicurezza e tranquillità.
La somma di tutte queste libertà sottratte costituisce la sovranità di uno Stato e il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore, nonché la figura incaricata a difenderle dalla usurpazione.
Si pone così il problema amministrativo della massima utilità sociale: trovare un sistema legislativo che richieda il minimo sacrificio di libertà da parte dei cittadini per ottenere uno stato di sicurezza e tutela ottimale.
Beccaria apostrofa questo principio utilitarista con la celebre frase “La massima felicità divisa sul maggior numero”. Le pene sono gli strumenti attraverso cui assicurare la massimizzazione utilitaristica del contratto sociale.
Da questi principi scaturiscono 3 conseguenze:
Il diritto penale si eleva così a mezzo essenziale della regolamentazione sociale, un tutore imparziale della libertà individuale.
Per individuare la pena adatta e commisurata al crimine commesso, Beccaria argomenta il principio dell’estensione della pena, in opposizione a quello dell’intensità.
“Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che dà un forte ma passeggero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse”.
Quanto detto trova la sua applicazione più nota nella trattazione della pena capitale, ritenuta immorale e inutile dall’autore milanese. Ad essa Cesare Beccaria propone un’alternativa più etica e risolutiva: l’ergastolo.
L’abolizione della pena di morte in Italia, avvenuta nel 1948 con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana è figlia di questa filosofia, tesa alla rieducazione del cittadino e al rispetto dell’essere umano.
L’efficienza della macchina della giustizia è uno degli obiettivi prioritari della Riforma della Giustizia, che vede nei fondi del PNRR una potenza di fuoco economica importante per implementare un processo organico di innovazione organizzativa trasversale a tutti gli ambiti inerenti la sfera giuridica e legale.
Nella seconda metà del 1700 l’idea dei processi telematici non poteva nemmeno essere pensata,non esistevano software in cloud e piattaforme unificate grazie alle quali velocizzare le pratiche forensi, ma Beccaria aveva ben chiaro l’utilità di un processo più celere ed efficiente.
Il principio della “prontezza della pena” teorizzava il rapporto di causa effetto nella mente delle persone tra le idee di delitto e pena. Le dilungazioni burocratiche dei processi penali non fanno altro che indebolire questo rapporto, minando la percezione di equità della pena.